giovedì 28 aprile 2011

Ca(s)pita!

Capita di sbagliare strada.

Presente quelle volte che ti dicono "Stiamo andando a Pincopallo" e tu hai in mente Gatticannì? Ed è, ovviamente, dalla parte opposta. Come quando all'incrocio ti dicono di andare a destra e, mentre ti domandi quale sia la mano con cui scrivi, curvi con decisione a sinistra. Convinta che sia la destra. Un casino insomma, soprattutto se stai facendo scuola-guida.
Ecco, immagina di imboccare la via sbagliata e di sentirti imbecille, ma nemmeno troppo.
Punto uno: perché l'esame di guida l'hai già dato. (Tiè all'ansia da esaminatore)
Punto due: perché il tuo sano (quanto lentissimo) cammino verso te stesso, ti fa sentire che non è poi così terribile e che ora dipende solo da come affronterai la cosa.
Appunto.
Una pace profonda ti avvolge. Ecco sei lì, nel tuo equilibrio, che prendi ad allegri buffetti il tuo chakra birichino. Quando ti scappa proprio di dire: "Eh, va beh, che vuoi che sia, ora mi giro!" Pure con un mezzo sorrisetto.

Grave Errore: scatta l'allarme e pure il sistema d'irrigazione del tuo giardino, che ne approfitta con piacere.

T'accorgi, con ingenuo ritardo, che non è giornata: chi sta viaggiando con te non apprezza affatto questo tuo infondere serenità gratuita e così parte la valanga.
Non è tanto il fatto che la passeggera non la pensi come te, questo è un dato di fatto previsto e conteggiato. No, no. E' qualcos'altro. Siccome non capisci quale strana reazione ha scatenato la tua evidente confusione mentale sui punti cardinali, ti accigli un po' ma torni in carreggiata, quella giusta, veh.
Arrivi al semaforo sentendo traballare pericolosamente il tuo castello di carte interiore. Freni.
Bastasse frenare e mettere in folle.. no. L'attacco continua, così al quarto "tel'avevoappenadetto" decidi di rispondere. A tono. Scelta avventata e scontata, direte voi. Legittima difesa, dico io. Soprattutto quando hai in mano un volante e minacciano di aprire la portiera della macchina.

Così la situazione degenera in un inquietante Pentathlon che unisce le seguenti discipline:

- Rabbia con diplomazia di fondo: in cui si cerca di spiegare che non era il caso di prendersela tanto. E che stiamo andando a fare un giretto di piacere. [Persa].
- Parolacce classiche mai-più-senza: che scatenano ulteriori non previste reazioni convulse. [Stravinta].
- Urlo libero: in cui vicendevolmente ci si supera, a suon di decibel, come fanno don Camillo e Peppone in bicicletta. [Parità].
- Ritorno-al-passato moment: in cui ogni tuo precedente errore (o solo pensiero di errore) ti viene riproposto, in versione horror, come attuale. Roba da far regredire il lavoro decennale di un monaco tibetano in ascesi. [Incassata tutta].
- Varie ed eventuali da delirio: durante la qual fase capisci di aver rischiato la vita tre o quattro volte e, dulcis in fundo, ti resta in mano il pomello del cambio. Prima di una salita. Dopo una curva. Solo un passato da bambina pasticciona (ma furba a riaggiustare ciò che rompeva), evita l'attacco isterico finale e assicura la prontezza giusta. [Vinta per precedente corso di Arte del ripiego. Seri dubbi che funzioni anche col castello interiore].
Il cambio lo riappiccichi in qualche modo e arrivi a casa degli amici, che ti aspettano da un'ora.

Capita pure che ti domandino perché hai i capelli bianchi, alla tua età.
Ne conosci benissimo la risposta: "Genetica".

venerdì 22 aprile 2011

Fuori e dentro

Un intestino aggrovigliato di aspettative deluse e la pressione violenta sui sogni da contenere.
Sono un vago sentore d'estate, che stupisce la gola e mi lascia ancora cauta sulla soglia. Sono dita allenate al labirinto delle lettere confuse, il respiro lieve e definito di un animaletto pavido. La capsula da ingoiare intera, senza bisogno d'acqua, che raschia la gola e si fonde, in fondo, dove tutto perde forma.
Sono l'istinto ruvido di spaccare il vaso di Pandora e la carezza che raccoglierà i cocci, lasciando libero il resto. Sono il silenzio inquisitore a pranzo con l'arrendevolezza; sono i solchi lasciati dalle unghie, quando mi si dice  lasciati andare, il bisogno di pietà se il consiglio è  sii forte. La miseria inguardabile da accudire e riscoprire nobile.
Sono accordi semplici, sporcati da una posizione sbagliata sulle corde, l'accumulo di biglietti del treno usati, ancora lì a raccontare.
Una matita per segnalibro, una candela intonsa per essere consumata quand'è il momento. Sono nel ricordo gentile di una vita spenta e già dimenticata, nel miracolo ignorato della morte di un seme che diventa altro, che non è morte; nella diffidenza sciocca di chi ascolta senza amare, nel possesso smodato di chi ama senza attenzione.
Sono lenti d'occhiali abbandonati, che deformano ogni cosa nella loro trasparenza; vestiti ammassati e disegni accartocciati e mai finiti e mai voluti, abortiti prima d'essere guardati.
Sono nella sensazione di quando si è perduto qualcosa che non si è mai posseduto, quella fragilità di trovarmi in bilico, tra podio e baratro, quella pace di sentirmi capace d'equilibrio.
E di perderlo.

mercoledì 20 aprile 2011

vento d'estate

Un piccoletto mingherlino e lentigginoso. Le nocche chiare e tese per i pugni chiusi a forza, pronto a colpire, mentre procede a piedi scalzi scombinando il terreno polveroso della campagna.
Il sole scotta sui capelli rossi e sull'espressione corrucciata che nei bambini fa tanto sorridere. Le cicale urlano la loro presenza, senza lasciare spazio ad altro. Si intuisce solo il costante fluire della cascatella nel fossato, attenuato dal vento caldo che gli romba nelle orecchie e gli soffoca il respiro. Con un gesto toglie la maglietta appiccicata alla schiena e la lancia nel campo giallo di grano.
Il vecchio pioppo secolare sembra l'unico riparo possibile e lui gli corre incontro minaccioso. Fa il gesto di colpirlo, senza raggiungerlo. Finisce per abbracciarlo graffiandosi il viso, le braccia e le ginocchia nude, già memori di recenti sbucciature. Si lascia cadere sotto la sua ombra e per un attimo il silenzio lo raggiunge, la vita resta sospesa in quel torpore, indotto dall'afa del primo pomeriggio. Rimane il suo singhiozzo incontrollabile, la sua rabbia infantile e tenace sbattuta più volte sulla terra secca. Un insetto si dilegua svelto tra i fili d'erba ancora verdi per quell'ombra donata, ma sembra ripensarci quando lui, spossato, rimane supino e senza forze; lo solletica con le zampette, attraversandogli il braccio che gli copre gli occhi, per poi tornare all'erba e al suo istinto.
Il suo respiro affannato si placa gradualmente, lasciando al sonno la sua foga.
Non sente passare una bicicletta che rallenta e frena per raccoglierlo. Due mani grandi lo stringono, sollevandolo con una delicatezza burbera. Una voce profonda, certa del suo essere altrove coi suoi sogni, gli chiede un perdono che le sarà presto concesso, mentre una schiena forte, scottata dalla vita, lo sostiene fino a casa.

sabato 16 aprile 2011

Ticking away

Forse a volte non si parla, solo perché si sa bene che scatena delle reazioni a catena, su cui non si ha il completo controllo. Non lo si ha mai, che ci si illuda o meno di averlo.
Forse a volte non parlo per non ascoltarmi cadere di botto, ancora una volta, per non sentirmi senza forze, sconfitta e ancora sulla linea di partenza. Anzi più indietro, ancora al cancello di ingresso, con la borsa pesante addosso e i pantaloncini corti, che mi fanno sentire così pronta alla corsa perché lasciano le gambe libere di rabbrividire.
Non lo so perché reagisco al contrario, perché la fretta e la voglia di terminare qualcosa diventa in me un masso enorme che continuo ad abbracciare, non lo so perché più rallento e più rallenterei.
So che ho fatto le mie gare, piccole, niente di eccezionale. Senza pubblico, molto spesso. Spesso correvo contromano e non per fare la ribelle, ma perché mi veniva così, sbagliavo strada e la curiosità di altre direzioni mi ha sempre affascinato.
Eppure formalmente mi sono sempre iscritta alla gara ufficiale. Quella seria, quella migliore, quella in cui la posta in gioco era maggiore. Quante volte ho mancato lo sparo della partenza. E correvo lo stesso, con un sorriso in pugno ed entusiasmo. A tradire a volte è stato un crampo, altre volte il cuore pesante, ma in genere era la testa distratta da qualcosa. Qualsiasi cosa. Una musica, uno sguardo. La vita degli altri. Spesso correre diventava il pretesto per rincorrere persone che incrociavo per caso e diventavano compagni di viaggio.
           "Non ti far manipolare dagli altri".
Quante volte me l'ha detto, quante volte lo penserà ancora. Eppure non potevo impedirmi di correre al fianco di qualcuno per un po', con decisione, con volontà affettuosa, incidendo la materia grezza di cui sono fatta, scalfendo gli spigoli, rallentando, modificando la strada, inciampando e ritrovandomi ancora sola. Non era che il mio modo di guardarmi allo specchio. E lo è anche adesso.
Che sia un fuggire astuto e subdolo, l'ho pensato molte volte. Alla fine quante persone ho accompagnato al loro traguardo senza che fosse il mio.
Non so dire, non ho più risposte da inventarmi, né belle parole da voler ascoltare. Avrei pagato oro per una soluzione, per un segnale ben piazzato, ma soprattutto sicuro, per leggere da qualche parte:
"Evvai, di qui non puoi che arrivare in cima e ne sarà valsa la pena".
Più cercavo cartelli e più finivo per scriverli da sola, per sognarmeli, per inoltrarmi in una giungla senza strada battuta.
Se di segnali da sempre ho bisogno, da sempre non li accetto. Non ci avrei creduto ad un cartello che mi dice che va tutto bene, non ho mai creduto a nulla che non fosse la mia fatica, il mio sudore, il mio piacere.

E' tutto qui, segue una strada non prevista, né prevedibile e probabilmente poco lineare, ma è unica, chiara e profonda. Non so nemmeno se sia il sentiero stesso la risposta o se lo siano le mie ferite, la mia rabbia, la mia pace di alcuni momenti in cui non desidero altro che ciò che sono e quello che gli altri sono, accanto a me.
Continuo a credere troppo poco nelle mie gambe finché so correre, nei miei occhi finché sanno guardare, nelle mie orecchie finché ascoltano senza fatica. E a pensare troppo di dover per forza vincere quella gara nel modo in cui credevo di doverlo fare, tagliando il traguardo all'ora giusta, nel posto giusto.
Invece, guarda caso, quel tempo e quel luogo sono passati, eppure correre, camminare, zigzagare nella vita, continua a dirmi (senza però farmelo sapere), che tutto va bene proprio così com'è e che il tempo per ogni cosa c'è e ci sarà, senza che alcun orologio lo sappia contenere.

giovedì 14 aprile 2011

monsters & co.

"Pabola!"
"Dimmi Sara, cosa succede?"
"Luca ha detto che lì c'è un ponte con sotto gli alligatori e i piraña e i serpenti.. i serpenti!! E poi... ah Luca, cos'è che ci sono anche??"
"Le meduse!!!" E ridacchia soddisfatto.
"Ecco. Le meduse. Che paura!" Stringe le mani con gli occhi sbarrati.
...

"Pabola, ho deciso! Chiedo ad Alberto se esiste un ponte così: lui di certo lo sa." Rimane seria e pensierosa. "Oh.. ma se poi esiste?!"
"Beh Sara, esistono questi animali da qualche parte. Magari, però, non stanno tutti insieme sotto un ponte ad aspettare voi!"
"Io non voglio morire e neanche lei!!!"
"Eh, immagino! Intanto potete sempre giocare da un'altra parte, no? Il prato è grande."
"E' vero, possiamo! Che bello, credevo che non potevamo!!"


Non è negando i mostri che li si elimina dalla nostra mente. A volte basta scoprire di poter fare qualcosa per sbloccare le nostre paure. Magari la libertà di allontanarci ce li farà, un giorno, vedere meno terribili di quello che pensavamo.

martedì 5 aprile 2011

controluce

La stanchezza buona, a volte, trascina in un abisso di dormiveglia pesante, che ti costringe a chiudere gli occhi ed osservare inerme il tuo subconscio giocare col tuo istinto, ancora e ancora.
Quando ci si addormenta così, non è sempre chiaro dove si è quando ci si sveglia. Né che ore sono.
Si accorse di come una casa diventi familiare molto prima di conoscerla veramente. Inspirò avida il profumo particolare che l'avvolgeva: sapeva di passione, di incensi e quotidiano, mentre il silenzio raccoglieva echi di sussurri lontani, il respiro del legno e del vino rosso nei bicchieri quasi vuoti. Sentiva la tenue luce del giorno scaldarle un piede, ma non sapeva invadere la pace di quel momento disturbandole gli occhi. Tutto, così intimamente, creava una bambagia morbida in cui lasciarsi cullare ancora un po'. Quel posto senza nome le apparteneva, come la dolce sensazione che le davano i muscoli indolenziti e rilassati a contatto con le lenzuola fresche.
Percepì la familiarità dei suoi piedi scalzi attraversare piano la stanza e fermarsi. Socchiuse un occhio e lo vide, trattenendone furtivamente la sagoma, scura contro la finestra. Tornò a fingere di dormire sentendo salire alle labbra un sorriso impercettibile. Presto sprofondò di nuovo in un sonno che sapeva più di vita che di riposo, portando con sé quell'ultima immagine impressa sulle palpebre chiuse e con essa la foga appassionata e allegra, i sottintesi, la complicità e la tenerezza spensierata sotto i polpastrelli. E di nuovo quella sagoma buia, che ovunque avrebbe riconosciuto senza saperla raccontare e che ora la stringeva a sé, senza svegliarla.

venerdì 1 aprile 2011

luci e ombre

Passeggia serena su una strada di ciottoli chiari, quelli che ti chiedono attenzione ad ogni passo, che non si lasciano calpestare senza farsi sentire. Cammina leggera, sembra non importarle capire dove sta andando; il passo è lento, elegante, ma spensierato come quello di una bambina che da un momento all'altro può mettersi a saltellare.
La sera è scesa più tardi, con un sole che sembra più caldo e profuma l'aria di vita. Lei rallenta, alza lo sguardo e scorge qualcosa che la fa fermare di colpo, tanto da incuriosire un passante che finisce per sorridere. Rimane seria qualche secondo ad individuare un usignolo, che saluta la giornata passata e resta lì, sul ramo più alto, a cantare senza nient'altro per le piume.
Riprendono il passo, i suoi piedi che paiono scalzi. Una mano stringe al fianco una borsa essenziale; l'altra, distratta, libera il viso dai capelli selvaggi per il vento tiepido. Non c'è fretta nei suoi gesti.
Le ombre si allungano lente, ma decise e allo stesso modo lei cambia direzione, facendo danzare la chiara gonna di lino che l'accarezza discreta.
E' un attimo e il suo sguardo sfiora il mio, si sofferma. E' un istante impercettibile come quando uno sguardo si stupisce di fronte ad un imprevisto, ma poi torna subito in se stesso per reagire, un istante in cui ogni cosa passata si ricongiunge al presente, senza peso, senza amarezza, con la calma di un perdono.

Tutto si focalizza in quello scambio, un punto distinto e già dissipato, forse mai esistito.
Cerco un senso nel rivederla così bella e compiuta; mi domando se ogni cosa è solo sempre al suo posto anche quando lo chiamiamo disordine. Il tempo e lo spazio non sono così importanti quando ne diventano nitidi gli estremi.
E' girata, ora. Appoggia i gomiti ad un muretto ancora caldo di sole e della frenesia di una giornata vissuta, entrambi dimenticati dalla sera che avvolge tutto. Il tramonto è ormai agli sgoccioli e i riflessi sull'acqua sembrano incantarla.

Indietreggio piano, come un fotografo d'altri tempi, come un timido pittore di magie. Siedo con un sorriso pensando alla bellezza di quello che sarà. O forse è solo un sogno.
Non resisto a voltarmi un'ultima volta.

Ha ripreso a camminare verso la piazza. Sento l'urgenza nelle dita sottili, che spingono una porta di vetro. Supera la soglia di un locale piacevolmente frequentato, ma non sembra affollato. La sento ridere, anche se non la posso ascoltare con le orecchie. La sento commuoversi, emozionarsi serena. Raccoglie un abbraccio che la solleva da terra. Chiude gli occhi e sorride.