Sai, non so che succede quando ti volti con un sorriso, dando per scontato lo sguardo che incrocerai e, invece, incontri uno sguardo estraneo e scostante. Non so cosa si prova, perché ho congelato il momento prima di lasciarmi invadere dal liquido di quell'iniezione letale che si chiama risveglio.
Anni di sonno bonaccione, forse saccente. Quella saccenza bambina che non ti fa cattivo, ma parecchio stupido. Non so nemmeno che vuol dire smettere di pensarti in quel modo antico che ti innalzava a modello, in quel modo spaventato e orgoglioso che non scorgeva difetti, che ti rubava la sguardo e cercava la battuta e le parole giuste per te. Come ammettere che mi è scivolato tra le mani il velo attraverso cui spiavo i tuoi movimenti essenziali? Come accettare d'aver dimenticato il profumo, la consistenza delle magliette rosse e di ogni cosa al suo posto, con quel disordine che ho sempre chiamato arte. No, non ho dimenticato. L'odore d'arancia sui libri divorati, la forza incredibile che non c'entrava nulla coi muscoli, ma li invadeva, a volte, fino a stritolare i miei.
Non so che si prova a perdere, perché mi hai sempre lasciata vincere, con quel fare alieno di chi non ne ha mai avuto bisogno. Le note basse, profonde, quasi stonate - e per questo perfette - a rimbalzare tra i tanti soli sulla tua parete.
Non lo so se era tutto prevedibile, ancora quando strizzavi i peluches sotto l'acqua corrente e stavo lì a guardare ammirata gesti che credevi banali, come quel tuo scorrere tra le storie, quel rivelarmi ingiusto il finale dei gialli, quel gesto automatico che ogni estate mi spezzava il cono mentre mangiavo il gelato, lasciandomi divertita e preoccupata per tutta quella crema tra le dita. Lenta, dicevi. Troppo lenta, invogliavo dispetti d'affetto che da troppo tempo credevo fossero cresciuti, trasformati nel quotidiano grigio che i grandi segretamente si augurano, per sembrare adulti. I colori li stavo per dimenticare, stavo per scordare la macchia bianca su Nuvola e la tavola massiccia che proteggeva i nostri sogni.
Il rosso. Il marrone scuro. La mia pelle che schiariva sotto le tue strette al polso che mi rallentavano la corsa in bici.
Quando hai smesso di fare quel gioco? Quando ho sentito scattare dentro delle energie diverse che mi hanno trascinata altrove e mi hanno chiuso gli occhi? Quando ho preferito chiudere gli occhi?
È che li ho sempre trovati, i tuoi occhi. E le tue mani dentro guanti senza dita, le telefonate, i tuoi messaggi senza articoli, più freddi e poi più rari e poi niente.
Cos'è che mi ha fatto aspettare tanto? Un'illusione? Una certezza? La sensazione, il bisogno di valere senza? Sì, si vale anche senza. Ma senza, che si fa, senza; che valore resta, senza.
Sempre. Questa parola osannata dalle credenze, violentata dall'esperienza.
Sempre. Ho congelato quel momento. L'iniezione è fatta, ma non è in circolo. Non ancora. Prima c'è quel sempre, quell'antibiotico che mi affanno ad ingoiare a fatica, mentre la gola trattiene il pianto.
Sempre. Mi guarirà il sempre? Mi guarirà questa sensazione, prima di lasciarmi invadere dall'amarezza, che non si può frenare per sempre?
Sempre. Ecco, quel che sento ora. Qualcosa resta, sempre, anche ciò che scompare, quel che trasfigura, dentro alle incoerenze, alle cazzate che pian piano sgretolano montagne e le consumano. La verità è che credo che il dolore incolmabile che si prova a volte sia la prova del sempre. Che tu hai quel pezzo di qualcun'altro per sempre e non importa come vada a finire poi. Anche l'altro ne ha uno tuo.
Per sempre. I fatti son quel che sono, istante per istante, ma non si può dir nulla fino alla fine.
Il dolore sta nel sentire la parola fine nel sempre. Un errore d'ascolto.
Il dolore è il nostro sempre travestito da ultima pagina, ma non lo è. Per questo preme tanto da dentro, per questo sembra voler scappare dalla gola, attorcigliando lo stomaco. Per ricordarmi da che parte stare, sciocca e lenta che non sono altro.
Dalla tua, sto. Dalla tua. Sempre.
Tu riesci, come pochi, a sconvolgere raccontandoti. Veramente. Secondo me hai un dono e nemmeno te ne rendi conto.
RispondiEliminaRiguardo al "per sempre",l'altra sera mi sono ritrovata a bofonchiare al telefono:
"prometti che rimarrai nella mia vita per sempre stavolta? Anzi, niente più per sempre. Facciamo il più possibile va".
E lui è scoppiato in una fragorosa risata.
Non abbiamo il controllo di nulla, se non di noi stessi.
marianna
Proprio vero, Marià, non abbiamo il controllo di niente. Solo di noi, quando ci impegnamo a farlo. Eh, quella storia del per sempre.. pensavo che a volte ci viene la smania del "per sempre così" e quello, sì, è davvero pericoloso. Niente è per sempre restando uguale. Però c'è un sempre più profondo con cui fare i conti, quello che rende gli scambi umani tangibili e unici, in avanti. Quel pezzo che si dà a qualcuno o che si riceve, è un gesto irrevocabile. Si può cambiare idea, cambiare tutto, ma è un gesto irrevocabile. Per questo a volte ci credo, al sempre, soprattutto se porta a sofferenze e piaceri costruttivi. Col tempo lo si capisce, col tempo si vede meglio. Capisco, dunque, il tuo sussurro al telefono. E anche alle risate fragorose, credo. Un abbraccio, briciola :)
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