Seduti sul fondo d'una massa d'acqua mi viene in mente che ci si debba annegare. Così la legge impalpabile del mondo suggerisce. Ordina. Ma credo che, prima, si possa rimaner vittime del terrore di arrivarci, laggiù. La paura fradicia che mi scorre sulla schiena e mi fa dire che conosco già il finale. E che conoscendolo, non vale la pena di appurare se sia vero o meno quello che credo di conoscere. E così un giorno scopro che oggi è l'aria che mi fa rimanere senza fiato e che l'acqua mi nutre, mi dà vita. E che respirerei lì giù, come d'ovunque, se solo riuscissi a credere veramente. Ed è incredibile come la materia, che mi è tanto essenziale e mi è cara come la vita stessa, finisca per spaventarmi e limitare sogni e realtà.
È che non si afferra. Non la posso sentire mia, se non lasciandomela scorrere addosso e dentro con una tale libertà che mi stordisce. Quella spontaneità di esserci o non esserci, propria di ciò che è puro. Di ciò che è talmente generoso da essere lì per te. Veramente. E lì per ognuno. Nessuno escluso. Veramente.
Resta sempre quella consapevolezza che c'è, ma scivola un passo più in là. Per dire qualcosa, forse. Per farsi seguire. La sensazione che l'unica cosa da cercare sia la strada per crederci di più. Che si può cambiare con pazienza e semplicità ogni cosa. Che c'è il tempo per tutto e per questo non c'è tempo da perdere. Che non ci si può perdere sempre in un bicchiere d'acqua. Che sott'acqua si può respirare. Dirò di più. Vivere.
martedì 25 ottobre 2011
lunedì 17 ottobre 2011
(E)virare
Pensavo a Roma, a come una manciata di buzzurri abbia vanificato il movimento di una massa enorme e pacifica. Che poi, vanificato. No, non l'ha vanificata. È che le telecamere son puntate male. Certo che per essere una che porta gli occhiali da quando aveva cinque anni accorgersi solo ora di quanto sia importante il punto di vista... fa ridere.
È che siamo troppo abituati a pensare che ciò che non vediamo è perduto.
Da piccola, piccola da non saper leggere, chiamavo come una forsennata perché, dopo la sigla del cartone, qualcuno venisse a leggermi il titolo della puntata. Il sapore del cartone cambiava molto da quel particolare. Non ci ho mai pensato ma è un po' come se fossi stata certa di non capirci nulla del cartone, senza leggere il titolo. A pensarci la metà dei cartoni che guardavo erano censurati, per cui era facile non capir niente tra una scena e l'altra: mancavano sempre scene di sesso, che davano senso alla reazione dei personaggi. Perché cavolo tutti ce l'avevano con Georgie l'ho capito in età avanzata.
E io che credevo fosse un problema di titolo. Di partenza.
Vedere Roma a ferro e fuoco mi ha messo rabbia, tristezza, molte cose. Ma soprattutto quella sensazione che si ha in classe quando il prof si incazza perché uno fa un disastro in aula e lui diventa il centro di tutto. E così si perdono lezioni a sentire il professore che si sfoga e dice che la classe non lo segue, che non c'è impegno, che non accetterà mai più volontari, che si stava meglio quando si stava peggio. Che è deluso.
Il bello è che gli studenti son già delusi, lo eravamo già, incazzati pure noi perché eravamo seduti sui banchi e lì, è vero che ascolti, aspetti e devi rispetto, ma è anche vero che sai di non aver il potere di dire del tutto la tua. Meglio: per la prima volta devi rivelare te stesso, trattenendoti in base a regole non da te decise, né sempre capite.
Quello che c'è di profondamente ingiusto è che farsi ascoltare pacificamente è molto più difficile che non prendendo ad accettate il banco. Questione di priorità. Questione che, chi sta zitto al primo banco, pare non abbia niente da sistemare dentro di sé.
Poi succede che sei adulto e vuoi dire la tua, sai che per la società conti un po' più di uno studente seduto in aula. Ma anche no. E così ti organizzi e vai a Roma e in tanti ci vanno. Tanti vuol dire un mare. E ancora una manciata di persone fa il cattivo tempo. E non è un gioco. È come un gioco, ma con armi vere, con fuoco vero e sangue. E tu ti aggrappi a quei cappucci che non ti appartengono, perché a te va proprio di mostrare la tua faccia, sei stanco di gente che tace perché in fondo tutti nascondono qualcosa.
Non è vero. Con tutto il mio pudore, non nascondo nulla.
La gente avrebbe bisogno di un sistema che la protegga, di prof che non si perdano una classe per elucubrazioni su una sola persona, di una nazione che apre gli occhi sulla massa, su quella che ha il coraggio di mostrarsi per quello che è, che ha difetti e oscurità che la rendono bella quanto i suoi pregi, che si schifa di chi si nasconde, di chi fa violenza, di chi approfitta del dolore. Di giornalisti che chiamano vigliacchi, i violenti, che hanno il coraggio di togliere la telecamera da una scena sanguinosa che può far audience, per raccontarla e basta, in modo distaccato ed avvicinarsi invece alle parole di chi ha il diritto di parlare, di chi è stanco per davvero, di chi è italiano ed è deluso perché in quest'Italia ci ha creduto tanto e ora, non solo non ha nulla: non sa più nemmeno se sperarci.
Il danno, la beffa. Ecco, gli ultimi vent'anni son stati una beffa, una beffa amara. Ma non mi interessa.
È davvero ora di virare.
È che siamo troppo abituati a pensare che ciò che non vediamo è perduto.
Da piccola, piccola da non saper leggere, chiamavo come una forsennata perché, dopo la sigla del cartone, qualcuno venisse a leggermi il titolo della puntata. Il sapore del cartone cambiava molto da quel particolare. Non ci ho mai pensato ma è un po' come se fossi stata certa di non capirci nulla del cartone, senza leggere il titolo. A pensarci la metà dei cartoni che guardavo erano censurati, per cui era facile non capir niente tra una scena e l'altra: mancavano sempre scene di sesso, che davano senso alla reazione dei personaggi. Perché cavolo tutti ce l'avevano con Georgie l'ho capito in età avanzata.
E io che credevo fosse un problema di titolo. Di partenza.
Vedere Roma a ferro e fuoco mi ha messo rabbia, tristezza, molte cose. Ma soprattutto quella sensazione che si ha in classe quando il prof si incazza perché uno fa un disastro in aula e lui diventa il centro di tutto. E così si perdono lezioni a sentire il professore che si sfoga e dice che la classe non lo segue, che non c'è impegno, che non accetterà mai più volontari, che si stava meglio quando si stava peggio. Che è deluso.
Il bello è che gli studenti son già delusi, lo eravamo già, incazzati pure noi perché eravamo seduti sui banchi e lì, è vero che ascolti, aspetti e devi rispetto, ma è anche vero che sai di non aver il potere di dire del tutto la tua. Meglio: per la prima volta devi rivelare te stesso, trattenendoti in base a regole non da te decise, né sempre capite.
Quello che c'è di profondamente ingiusto è che farsi ascoltare pacificamente è molto più difficile che non prendendo ad accettate il banco. Questione di priorità. Questione che, chi sta zitto al primo banco, pare non abbia niente da sistemare dentro di sé.
Poi succede che sei adulto e vuoi dire la tua, sai che per la società conti un po' più di uno studente seduto in aula. Ma anche no. E così ti organizzi e vai a Roma e in tanti ci vanno. Tanti vuol dire un mare. E ancora una manciata di persone fa il cattivo tempo. E non è un gioco. È come un gioco, ma con armi vere, con fuoco vero e sangue. E tu ti aggrappi a quei cappucci che non ti appartengono, perché a te va proprio di mostrare la tua faccia, sei stanco di gente che tace perché in fondo tutti nascondono qualcosa.
Non è vero. Con tutto il mio pudore, non nascondo nulla.
La gente avrebbe bisogno di un sistema che la protegga, di prof che non si perdano una classe per elucubrazioni su una sola persona, di una nazione che apre gli occhi sulla massa, su quella che ha il coraggio di mostrarsi per quello che è, che ha difetti e oscurità che la rendono bella quanto i suoi pregi, che si schifa di chi si nasconde, di chi fa violenza, di chi approfitta del dolore. Di giornalisti che chiamano vigliacchi, i violenti, che hanno il coraggio di togliere la telecamera da una scena sanguinosa che può far audience, per raccontarla e basta, in modo distaccato ed avvicinarsi invece alle parole di chi ha il diritto di parlare, di chi è stanco per davvero, di chi è italiano ed è deluso perché in quest'Italia ci ha creduto tanto e ora, non solo non ha nulla: non sa più nemmeno se sperarci.
Il danno, la beffa. Ecco, gli ultimi vent'anni son stati una beffa, una beffa amara. Ma non mi interessa.
È davvero ora di virare.
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venerdì 14 ottobre 2011
At par?
Se c'è una cosa che la vita insegna è che, per ogni istante di attenzione prestata a qualcosa, qualcos'altro perderà il tuo sguardo. Ci son quelle persone per cui ti pieghi in due, le cerchi, ti lasci spezzare perché sono loro e niente al mondo ti distoglierà da quella fatica di amare senza ritorno, né dallo sguardo che ti si fa dolce proprio in quella direzione e non in un'altra. Ci sono persone che ti cercano con l'amore tra le mani e ti investono di un'adorazione che, però, non basta a farti volgere lo sguardo.
Poi ci sono sguardi che si ricambiano. Gesti che ne chiamano altri in risposta, sentieri che vanno attraversati insieme e nessuno sbarramento merita la nostra paura. Come se ci fossero persone che alzano gli occhi quando lo facciamo noi e l'incontro è pulito, netto. Qualsiasi regola ti sia stata accollata addosso, perde il suo significato assoluto, fino a che quell'incontro non avviene. E deve avvenire. Più lo rifuggi e più ti insegue e ti si ripresenta sorridente alla porta.
E così vaghiamo senza saper per dove e quando è il momento e come fare e che senso abbia. Ed è tutto uno scoprire, imparare, cadere e arrivare, ripartire e credere e disilludersi e crederci di nuovo, con nuovi segni addosso. Che anche le cicatrici si trasformano in rughe.
Tutto questo si frantuma di fronte a quegli sguardi di prima. Alle parole e ai silenzi nati in quegli incontri a cui prestiamo attenzione. Quelli che, quando la prospettiva cambia, ti accorgi che ti mancano dentro come l'aria, come lo scorrere del sangue nelle vene e la pelle che ti si rigenera addosso. E ti mancano lì, proprio nell'istante in cui ti distrai un attimo e credi che riguardare basterà a riportarle lì. Come quando aspetti che il treno parta, per coglierne l'attimo e sempre, immancabilmente, ti rendi conto che si muove sempre un istante prima di quando ne hai coscienza.
L'attenzione ci viene meno in certi momenti, non possiamo evitarlo. Anche per le persone che resteremmo a fissare una notte intera e tutti i giorni a venire, solo per il piacere di guardarle. Ma alla fine le palpebre si chiudono, per potersi riaprire, e cedono. A volte ritrovano un paesaggio del tutto nuovo al loro risveglio. Ma quelle persone non le dimenticano. Gli occhi devono sapersi chiudere, ma non dimenticano ciò a cui hanno prestato attenzione.
Poi ci sono sguardi che si ricambiano. Gesti che ne chiamano altri in risposta, sentieri che vanno attraversati insieme e nessuno sbarramento merita la nostra paura. Come se ci fossero persone che alzano gli occhi quando lo facciamo noi e l'incontro è pulito, netto. Qualsiasi regola ti sia stata accollata addosso, perde il suo significato assoluto, fino a che quell'incontro non avviene. E deve avvenire. Più lo rifuggi e più ti insegue e ti si ripresenta sorridente alla porta.
E così vaghiamo senza saper per dove e quando è il momento e come fare e che senso abbia. Ed è tutto uno scoprire, imparare, cadere e arrivare, ripartire e credere e disilludersi e crederci di nuovo, con nuovi segni addosso. Che anche le cicatrici si trasformano in rughe.
Tutto questo si frantuma di fronte a quegli sguardi di prima. Alle parole e ai silenzi nati in quegli incontri a cui prestiamo attenzione. Quelli che, quando la prospettiva cambia, ti accorgi che ti mancano dentro come l'aria, come lo scorrere del sangue nelle vene e la pelle che ti si rigenera addosso. E ti mancano lì, proprio nell'istante in cui ti distrai un attimo e credi che riguardare basterà a riportarle lì. Come quando aspetti che il treno parta, per coglierne l'attimo e sempre, immancabilmente, ti rendi conto che si muove sempre un istante prima di quando ne hai coscienza.
L'attenzione ci viene meno in certi momenti, non possiamo evitarlo. Anche per le persone che resteremmo a fissare una notte intera e tutti i giorni a venire, solo per il piacere di guardarle. Ma alla fine le palpebre si chiudono, per potersi riaprire, e cedono. A volte ritrovano un paesaggio del tutto nuovo al loro risveglio. Ma quelle persone non le dimenticano. Gli occhi devono sapersi chiudere, ma non dimenticano ciò a cui hanno prestato attenzione.
venerdì 7 ottobre 2011
Something in the water
Si sta nudi, a volte. Dentro una vasca da bagno che ci contiene appena. Una vasca bianca, che non sa mai essere candida come la si dipinge. Bianca, ma non pura. E scende l'acqua da un rubinetto argentato, familiare di graffi ed impronte. Scende tiepida dal telefono storto, con un serpente di filo ad avviluppare il rubinetto, quasi a sostenersi, quasi a soffocarlo.
Gambe incrociate e il corpo mi si proietta in avanti, senza forze. Vedo i piedi rilassarsi e muoversi appena sotto l'acqua che sale lenta e inesorabile, senza chiedere permesso. Si muove, scossa da altra acqua, ribolle e si calma e ingrigisce sulla fatica di un corpo stanco e avvilito che si guarda affondare dove prima sedeva.
Alzo gli occhi sul bordo. È bianco, sul serio lo è. Riflette l'eco delle pareti e il silenzio sporcato dallo scroscio silenzioso e continuo, che abitua le orecchie e le disturba senza farsi notare.
Non è così bianco, quel bordo. La polvere, un capello, gli schizzi. Non è così bianco, come potrebbe essere.
Ma potrebbe?
Afferro una spugna ormai secca. La lascio cadere e osservo come l'acqua sia lenta ad insinuarsi, ma non si fermi fino ad averla ritornata morbida. La sfrego su quel bordo, fino all'angolo. Striscio, forte che vedo le dita impallidire, decise e corrugate per quel tempo passato ad arrendersi all'acqua.
E mentre il mio gesto diventa meccanico, la mia mente si distacca e graffia la superficie, gratta lo smalto, lo fa sparire e piano piano consuma il bordo e la vasca e la parete e l'acqua è libera di occupare il suo spazio. Lo ruba presto all'aria e si scontrano, si abbracciano e scambiano particelle e chissà quali vibrazioni, quali equilibri. E il corpo resta nudo, lì. Squassato da qualche sighiozzo che ormai si calma e lo lascia spossato a terra. Bagnato di vita. Spossato.
In mezzo ad un nulla che lo protegge da tutto.
Gambe incrociate e il corpo mi si proietta in avanti, senza forze. Vedo i piedi rilassarsi e muoversi appena sotto l'acqua che sale lenta e inesorabile, senza chiedere permesso. Si muove, scossa da altra acqua, ribolle e si calma e ingrigisce sulla fatica di un corpo stanco e avvilito che si guarda affondare dove prima sedeva.
Alzo gli occhi sul bordo. È bianco, sul serio lo è. Riflette l'eco delle pareti e il silenzio sporcato dallo scroscio silenzioso e continuo, che abitua le orecchie e le disturba senza farsi notare.
Non è così bianco, quel bordo. La polvere, un capello, gli schizzi. Non è così bianco, come potrebbe essere.
Ma potrebbe?
Afferro una spugna ormai secca. La lascio cadere e osservo come l'acqua sia lenta ad insinuarsi, ma non si fermi fino ad averla ritornata morbida. La sfrego su quel bordo, fino all'angolo. Striscio, forte che vedo le dita impallidire, decise e corrugate per quel tempo passato ad arrendersi all'acqua.
E mentre il mio gesto diventa meccanico, la mia mente si distacca e graffia la superficie, gratta lo smalto, lo fa sparire e piano piano consuma il bordo e la vasca e la parete e l'acqua è libera di occupare il suo spazio. Lo ruba presto all'aria e si scontrano, si abbracciano e scambiano particelle e chissà quali vibrazioni, quali equilibri. E il corpo resta nudo, lì. Squassato da qualche sighiozzo che ormai si calma e lo lascia spossato a terra. Bagnato di vita. Spossato.
In mezzo ad un nulla che lo protegge da tutto.
sabato 1 ottobre 2011
La Teoria della zanzara
Saranno state le tre, stanotte. Mi sveglio con due punture allucinanti di zanzara sul braccio. Va beh. Mi rilasso, sto ferma, cercando di non pensare al prurito, come dice mio papà.
Ma come cazzo si fa?? Ehi! Ci sto riuscendo.. magnifico!
Ma immancabilmente arriva. La zanzara, dico. Arriva con quello strafottente ronzio. Reazione immediata: mi giro di colpo prendendo a sberle il cuscino vicino all'orecchio che provo a schiacciarla nel buio, tecnica che raramente mi riesce, ma è successo. Saranno gli anni di karate. Ovviamente questa volta no.
Mi siedo a gambe incrociate, accendo la luce e guardo in giro. Gli occhi a fessura non c'entrano nulla col sonno, è proprio un tentativo di fulminarla a distanza. Mi occupo degli angolini strategici vicino al letto. Poi la vedo. Mannaggia è di quelle furbe semi trasparenti che vanno veloci e non sono appesantite dall'abbuffata. Non c'è partita, la manco e sparisce.
Spengo la luce e parto col piano B: mi copro. Fortuna che non è estate, è finito anche settembre (a proposito: avete svegliato i Greenday?). La copertura è strategica, lascio fuori solo il viso per sentire se passa ancora.
La cosa si ripete altre tre volte: la sento, picchio il cuscino, luce fu, la vedo, la manco, inveisco, click, di nuovo buio. E in quello stato mummiesco con scatti improvvisi e momenti rabbiosi, finisco per dire: chissenefrega, che mi punga. Non ne posso più.
Ecco. È nata così, nell'attesa e nella lotta, la Teoria della zanzara.
C'è un momento in cui sopporti per quieto vivere, ma poi per esasperazione inizi a credere che dopo tutto un po' di sangue può proprio succhiartelo via, che mica sei possessivo e che poi, in fondo, va bene così.. ecco. Mi son vista Silvio, sì, Berlusconi e Brunetta e la Gelmini e la Lega tutta e la massa di idioti che si permette di ronzare per il Parlamento comportandosi allo stesso modo. Zanzare tronfie di potere e denaro. Così fan tutti? Sempre state? Sì, può darsi. Eccolo qui il punto. Una la scacci con la mano e poi ritorna e poi non sei mica capace di ucciderne la voglia di prendersi a poco a poco un po' di più.
Con la storia che i ladri ci son da sempre si accettavano svolazzanti anche in buona vista, solo l'evidenza del loro essere vampiri finiva per farli dimettere. Un tempo.
Poi basta. Un passo alla volta, l'abitudine, la rassegnazione stanca. Ed ecco che va tutto di nuovo bene così. Va bene il puttaniere perché non siamo più puritani (solo con lui, pare), va bene la mancanza di stile, il grezzume, la presa in giro, dire una cosa e negarla subito dopo, il fatto che il Parlamento sembri più l'Anticamera del carcere che permette di non raggiungerlo. E poi il fatto che i leccaculo siano prolificati, che l'ignoranza si crogioli nei suoi tunnel immaginari, che il razzismo sia una cosa così da ridere, che i soldi comprino tutto, che dopotutto ognuno ha il suo sporco da nascondere.
Ma chi? Ma dove? Ma quando? Ma perché?
Ma quanta pigrizia ci fa star qui, a rigirarci nel letto e sperare di riaddormentarci prima di accorgerci del sangue rubato? Ma quanta paura di dire, di fare, di esserci? Quanti silenzi, quanta rabbia formale? Quanta Italia dobbiamo veder marcire ancora prima di rivoluzionare il nostro spazio nella società, per liberarci dei ronzii che copriamo con tante giustificazioni?
Anche i dinosauri c'erano e non ci sono più.
Magari con loro siamo stati più convincenti.
Ma come cazzo si fa?? Ehi! Ci sto riuscendo.. magnifico!
Ma immancabilmente arriva. La zanzara, dico. Arriva con quello strafottente ronzio. Reazione immediata: mi giro di colpo prendendo a sberle il cuscino vicino all'orecchio che provo a schiacciarla nel buio, tecnica che raramente mi riesce, ma è successo. Saranno gli anni di karate. Ovviamente questa volta no.
Mi siedo a gambe incrociate, accendo la luce e guardo in giro. Gli occhi a fessura non c'entrano nulla col sonno, è proprio un tentativo di fulminarla a distanza. Mi occupo degli angolini strategici vicino al letto. Poi la vedo. Mannaggia è di quelle furbe semi trasparenti che vanno veloci e non sono appesantite dall'abbuffata. Non c'è partita, la manco e sparisce.
Spengo la luce e parto col piano B: mi copro. Fortuna che non è estate, è finito anche settembre (a proposito: avete svegliato i Greenday?). La copertura è strategica, lascio fuori solo il viso per sentire se passa ancora.
La cosa si ripete altre tre volte: la sento, picchio il cuscino, luce fu, la vedo, la manco, inveisco, click, di nuovo buio. E in quello stato mummiesco con scatti improvvisi e momenti rabbiosi, finisco per dire: chissenefrega, che mi punga. Non ne posso più.
Ecco. È nata così, nell'attesa e nella lotta, la Teoria della zanzara.
C'è un momento in cui sopporti per quieto vivere, ma poi per esasperazione inizi a credere che dopo tutto un po' di sangue può proprio succhiartelo via, che mica sei possessivo e che poi, in fondo, va bene così.. ecco. Mi son vista Silvio, sì, Berlusconi e Brunetta e la Gelmini e la Lega tutta e la massa di idioti che si permette di ronzare per il Parlamento comportandosi allo stesso modo. Zanzare tronfie di potere e denaro. Così fan tutti? Sempre state? Sì, può darsi. Eccolo qui il punto. Una la scacci con la mano e poi ritorna e poi non sei mica capace di ucciderne la voglia di prendersi a poco a poco un po' di più.
Con la storia che i ladri ci son da sempre si accettavano svolazzanti anche in buona vista, solo l'evidenza del loro essere vampiri finiva per farli dimettere. Un tempo.
Poi basta. Un passo alla volta, l'abitudine, la rassegnazione stanca. Ed ecco che va tutto di nuovo bene così. Va bene il puttaniere perché non siamo più puritani (solo con lui, pare), va bene la mancanza di stile, il grezzume, la presa in giro, dire una cosa e negarla subito dopo, il fatto che il Parlamento sembri più l'Anticamera del carcere che permette di non raggiungerlo. E poi il fatto che i leccaculo siano prolificati, che l'ignoranza si crogioli nei suoi tunnel immaginari, che il razzismo sia una cosa così da ridere, che i soldi comprino tutto, che dopotutto ognuno ha il suo sporco da nascondere.
Ma chi? Ma dove? Ma quando? Ma perché?
Ma quanta pigrizia ci fa star qui, a rigirarci nel letto e sperare di riaddormentarci prima di accorgerci del sangue rubato? Ma quanta paura di dire, di fare, di esserci? Quanti silenzi, quanta rabbia formale? Quanta Italia dobbiamo veder marcire ancora prima di rivoluzionare il nostro spazio nella società, per liberarci dei ronzii che copriamo con tante giustificazioni?
Anche i dinosauri c'erano e non ci sono più.
Magari con loro siamo stati più convincenti.
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martedì 20 settembre 2011
Pam.
Ho raccolto un sassolino. Nello spiazzo di un piccolo cimitero.
Amo i sassi che trasformano il peso dei ricordi in una forma unica e matta. È piccolo e arrotondato. Piatto su un lato, che lo si può appoggiare comodo. Ed è grigio. Semplice. Con una venatura scura che lo attraversa e sembra una fessura, un piccolo crepo. Ma non lo è. È un disegno particolare che sembra ferirlo all'apparenza e invece lo rende unico. Per questo l'ho scelto, perché alleggerisce un ricordo lontano, ma presente, che non mi appartiene, ma lo stesso è entrato in me.
L'ho raccolto per ricordarmi della bellezza, della libertà che graffia per affermarsi e non sembra farcela e invece ce la fa; per tenere in mente l'imprevedibilità delle cose e il loro senso che scivola sempre oltre noi, come fa l'acqua coi sassi, appunto. Li accarezza, li lascia sassi, ma li consuma, li cambia. L'ho scelto per ricordarmi di come, nonostante controlliamo così poco, lo stesso il mondo ci parla tanto, ci modella e sa osservarci mentre ci modelliamo. Ci abbraccia quando ce la facciamo, ma di più se crolliamo.
Perché il tempo non esiste, ma impazziremmo senza scandirlo. E le scelte vere che facciamo hanno sempre un istinto oscuro e profondo, che ci illumina da dentro e ci rende liberi e un po' più felici.
Grazie Max.
Amo i sassi che trasformano il peso dei ricordi in una forma unica e matta. È piccolo e arrotondato. Piatto su un lato, che lo si può appoggiare comodo. Ed è grigio. Semplice. Con una venatura scura che lo attraversa e sembra una fessura, un piccolo crepo. Ma non lo è. È un disegno particolare che sembra ferirlo all'apparenza e invece lo rende unico. Per questo l'ho scelto, perché alleggerisce un ricordo lontano, ma presente, che non mi appartiene, ma lo stesso è entrato in me.
L'ho raccolto per ricordarmi della bellezza, della libertà che graffia per affermarsi e non sembra farcela e invece ce la fa; per tenere in mente l'imprevedibilità delle cose e il loro senso che scivola sempre oltre noi, come fa l'acqua coi sassi, appunto. Li accarezza, li lascia sassi, ma li consuma, li cambia. L'ho scelto per ricordarmi di come, nonostante controlliamo così poco, lo stesso il mondo ci parla tanto, ci modella e sa osservarci mentre ci modelliamo. Ci abbraccia quando ce la facciamo, ma di più se crolliamo.
Perché il tempo non esiste, ma impazziremmo senza scandirlo. E le scelte vere che facciamo hanno sempre un istinto oscuro e profondo, che ci illumina da dentro e ci rende liberi e un po' più felici.
Grazie Max.
domenica 18 settembre 2011
cocci di un giullare
Mi son rotta.
E i cocci sono miei.
Mi son rotta, spezzata, frantumata mille volte. Ricostruita e incrinata ancora lungo le stesse fessure fragili, che a stento la colla dell'ottimismo teneva insieme.
Quand'ero piccola ho corso tanto, senza ben capir per dove,
ma arrivavo sempre prima e aspettavo nuove prove.
Qualche volta è capitato di far viaggi un po' per niente,
ma così ho poi imparato ad amar di più la gente.
Caduta, qualche volta, fatalmente sull'orgoglio,
ho rischiato d'imparare sol facendo quel che voglio.
Tanti amici hanno riempito quel distacco che sentivo
con il mondo di quei grandi che, fortuna, non capivo.
Ed ho usato male il cuore, credo poi, per molto tempo,
forse barricando troppo quello che ci stava dentro.
A volte scontrosa o solo un po' superficiale,
dolce che proteggermi veniva naturale
ottimista ingenua o altezzosa, non lo so,
ma ho ferito con la faccia
a cui non si dice no.
Lo devo aver fatto
e per questo io tacevo,
sulle cose che sporcavano
il posto a cui tenevo.
Non c'ho mai creduto
che il mondo fosse pulito,
ma in fondo lo speravo
che l'avrebbero guarito.
Poi la vita si è destata ed ho provato anche ad amare,
con quella leggerezza di chi proprio lo vuol fare.
Abbandoni, negazioni e pure qualche diamante
a ricordarmi che in fondo non è così importante:
con certi amici va bene e con altri va male,
alla fine poi conviene sentirsi un po' speciale?
Domande a centinaia sono impazzite dentro,
in un posto che non so se si trova ancora al centro.
Crollava l'illusione che altri potessero capire
e la voce, intanto, si spegneva per non dire.
Quanti anni son passati a rincorrere un assenso,
con la rabbia nel sentirne volare via il senso.
E si prega terra e cielo e chiunque stia vicino,
quando senti che sei solo, ma soltanto un ragazzino.
Dicono che la musica liberi anche gli animi più inquieti,
ma i pensieri e le domande in me restavano consueti.
Il principe azzurro inconsciamente una aspetta di trovare
e poi invece la realtà ti tocca d'incontrare.
Beninteso, lo so certo, e non è affatto deludente
ritrovarsi tra le braccia di chi ama senza ch'hai fatto niente.
Non lo so cos'è accaduto, cosa dentro si è incrinato,
so che quel che avevo dopo un po' non è bastato.
Le domande, vecchie amiche, non mi han mai abbandonata
e la vita che ho scoperto poco a poco mi ha cambiata.
Ed ancora ci son giorni che finisco per pensare,
che tutta questa struma sia un errore da aggiustare.
Tempo perso e paranoie mi han legata all'impressione,
che di soffrire così tanto non ce ne fosse una ragione.
Il ritardo è poi il dilemma di una che correva tanto,
per accorgersi, alla fine, che la gente amava accanto.
E l'indipendenza è quel traguardo che sentivo già all'inizio,
sembra strano ma l'Amore mi ha lasciato quest'indizio:
che paure o non paure da sola mi conviene fare,
e che quando son serena tutto quanto posso amare.
Poi mi prende quella smania, quella voglia di giocare,
che mi spinge a venir fuori e lasciarmi accarezzare
che mi fa ridere di gusto con lo sguardo di un bambino
sentendo che scavare a fondo è sempre stato il mio destino
e la gente che ho incontrato, c'è chi non resta e chi rimane,
ma alla fine tutta quanta io mi sento d'abbracciare.
E i cocci sono miei.
Mi son rotta, spezzata, frantumata mille volte. Ricostruita e incrinata ancora lungo le stesse fessure fragili, che a stento la colla dell'ottimismo teneva insieme.
Quand'ero piccola ho corso tanto, senza ben capir per dove,
ma arrivavo sempre prima e aspettavo nuove prove.
Qualche volta è capitato di far viaggi un po' per niente,
ma così ho poi imparato ad amar di più la gente.
Caduta, qualche volta, fatalmente sull'orgoglio,
ho rischiato d'imparare sol facendo quel che voglio.
Tanti amici hanno riempito quel distacco che sentivo
con il mondo di quei grandi che, fortuna, non capivo.
Ed ho usato male il cuore, credo poi, per molto tempo,
forse barricando troppo quello che ci stava dentro.
A volte scontrosa o solo un po' superficiale,

ottimista ingenua o altezzosa, non lo so,
ma ho ferito con la faccia
a cui non si dice no.
Lo devo aver fatto
e per questo io tacevo,
sulle cose che sporcavano
il posto a cui tenevo.
Non c'ho mai creduto
che il mondo fosse pulito,
ma in fondo lo speravo
che l'avrebbero guarito.
Poi la vita si è destata ed ho provato anche ad amare,
con quella leggerezza di chi proprio lo vuol fare.
Abbandoni, negazioni e pure qualche diamante
a ricordarmi che in fondo non è così importante:
con certi amici va bene e con altri va male,
alla fine poi conviene sentirsi un po' speciale?
Domande a centinaia sono impazzite dentro,
in un posto che non so se si trova ancora al centro.
Crollava l'illusione che altri potessero capire
e la voce, intanto, si spegneva per non dire.
Quanti anni son passati a rincorrere un assenso,
con la rabbia nel sentirne volare via il senso.
E si prega terra e cielo e chiunque stia vicino,
quando senti che sei solo, ma soltanto un ragazzino.
Dicono che la musica liberi anche gli animi più inquieti,
ma i pensieri e le domande in me restavano consueti.
Il principe azzurro inconsciamente una aspetta di trovare
e poi invece la realtà ti tocca d'incontrare.
Beninteso, lo so certo, e non è affatto deludente
ritrovarsi tra le braccia di chi ama senza ch'hai fatto niente.
Non lo so cos'è accaduto, cosa dentro si è incrinato,
so che quel che avevo dopo un po' non è bastato.
Le domande, vecchie amiche, non mi han mai abbandonata
e la vita che ho scoperto poco a poco mi ha cambiata.
Ed ancora ci son giorni che finisco per pensare,
che tutta questa struma sia un errore da aggiustare.
Tempo perso e paranoie mi han legata all'impressione,
che di soffrire così tanto non ce ne fosse una ragione.
Il ritardo è poi il dilemma di una che correva tanto,
per accorgersi, alla fine, che la gente amava accanto.
E l'indipendenza è quel traguardo che sentivo già all'inizio,
sembra strano ma l'Amore mi ha lasciato quest'indizio:
che paure o non paure da sola mi conviene fare,
e che quando son serena tutto quanto posso amare.
Poi mi prende quella smania, quella voglia di giocare,
che mi spinge a venir fuori e lasciarmi accarezzare
che mi fa ridere di gusto con lo sguardo di un bambino
sentendo che scavare a fondo è sempre stato il mio destino
e la gente che ho incontrato, c'è chi non resta e chi rimane,
ma alla fine tutta quanta io mi sento d'abbracciare.
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