Notavo che siamo figli di ogni istante della nostra vita e, di ogni momento, siamo i portatori sani o malati, in base alle situazioni. Ci accorgiamo di certi gesti automatici che non ci appartengono più e che ripetiamo o con cui gli altri ci identificano.
A volte incontro gente che distoglie lo sguardo timida, altre volte distratta, altre ancora per abitudine, stanchezza, preoccupazione, vergogna. Pure per defilarsi in modo pavido. Si legge che è segno di poca fiducia distogliere lo sguardo, ma osservo che ogni persona dimostra la fiducia in modo diverso e in modo differente la rende salda o la demolisce.
Penso che tempo fa ci fossero cose che mai avrei fatto per amor di coerenza. Oggi mi accorgo di farle per lo stesso amore.
Da una stretta di mano si sente la decisione altrui. Certo una stretta fiacca è diversa da quella che ti stritola la mano, come se dovesse fonderla in sé. Eppure abbiamo una sensazione che possiamo sentire, ma non del tutto interpretare: sentiamo quella stretta e finiamo per credere di aver capito, quando magari c'è tutto un labirinto di motivi che rende quel gesto diverso dalla persona a cui appartiene.
Penso che spesso certe generiche interpretazioni siano veritiere o vicine alla verità. Un uomo che sembra burbero, finirà per esserlo, se ne convincerà lui stesso; un bambino cullato di fiducia finirà per amare, un bambino impaurito e lasciato a lottare da solo finirà per graffiare o graffiarsi. Chissà. Magari no.
Quello che mi interessa è come, è il percorso, sono le impronte. Perché a volte ci si trova a sembrare per lungo tempo quello che non si è, ci abituiamo a vederci e farci vedere così, a volte si amano persone che non vedono così bene e si arriva a non guardare allo stesso modo. Mi importa l'insieme delle piccole cose, capire che a volte distogliere uno sguardo è segno di una timidezza passata e sorpassata, che ora sembra dare una sfumatura superba al volto ed invece è solo fierezza per il percorso fatto.
A volte uno sguardo serio aspetta solo di essere sorpreso da un sorriso gratuito, a volte una disabilità diventa abilità solo per l'affetto che riceve.
Non sappiamo un bel niente, però intuiamo un sacco di cose, le vediamo, le sfioriamo. A volte bisogna proprio fare quel qualcosa che ci frena per trovare l'equilibrio giusto, per capirlo, per superarlo. Bisogna sporcarsi, bisogna sperare di non fare troppo del male, di non ferirci troppo da farci chiudere a riccio per sempre. Ma esiste un sempre senza una possibilità di movimento e rinascita?
Non credo. Non lo so.
Ora, fine giugno, stanca ma serena, incasinata come sempre, irrisolta e lontana dalla realizzazione ma non da me stessa, sento che è proprio bello che siamo tutte quelle piccolezze che sottolineano i nostri errori e i nostri traguardi; non è bello cadere, ma le cicatrici ricordano, costruiscono una storia. Qualsiasi cosa si esprima istintivamente, è bello scoprire che alcune persone sanno vedere oltre e vedere te, per come sei e così voler passare del tempo con te, anche se magari non ci pensavano, ma poi avviene e si sta così bene. È bello poter dire di conoscere qualcuno al di là di quello che sembra, ma per come è.
Rigenera ed è più bello di quello che sembra, ma soprattutto rimane rassicurante dentro, come la voce del mare.
domenica 26 giugno 2011
lunedì 20 giugno 2011
Vuoti a vincere
Il bello delle fotografie è che restano, ma ingialliscono.
Le fotografie non devono essere scattate con la macchinetta per rimanere nei ricordi. Sono istantanee del nostro sguardo. Disegni realistici, ma così intimi da non risultare mai oggettivi.
Le fotografie profumano e a volte trasportano lontano: lo sai che ci stai andando, ma non riesci a frenarti. Sanno stare in silenzio, ma dicono sempre qualcosa.
Il web contiene tutto, raggiunge tutto, trasforma tutto e tutto lascia uguale.
Il web non fa distinzione tra passato e presente, non guarda all'evoluzione delle persone che ci passano su, ma incasella all'infinito dati, pensieri ed immagini. Veri o falsi, offensivi e sublimi, superficiali o profondi, son tutti lì. Senza ingiallire. Forse internet confonde col non stropicciarsi delle idee nel tempo, forse è che rende asettico e distante quello che nella foto diventa emozione e brivido. Forse gioca su altri binari.
La palestra mette in pratica il pensiero di movimento, mette in moto, fa sudare anche le elucubrazioni mentali, cancella l'attesa trasformandola in energia. Le azioni, a volte, si perdono in ripetizione meccanica che sgonfia il desiderio e l'entusiasmo. Le azioni costruiscono, ma possono distruggere. A volte salvano dall'apatia e dal troppo silenzio, altre volte ne creano il bisogno, fanno desiderare di fermarsi.
Il rumore rincorre il silenzio, il silenzio si scuote per fare rumore.
Le persone a volte dimenticano che non sono solo fotografie, né solo una massa di dati o di azioni meccaniche. Altre volte credono fortemente di essere qualcosa che non sono.
La gente a volte si perde e si spaventa, si sfida, trova, cerca e si arrende, ripete le stesse cose, sbaglia e vince. A volte l'essere umano sa vivere un istante pensando, agendo e amando proprio nello stesso momento. Però non lo sa finché non percepisce la bellezza di quell'attimo, che generalmente avvertirà come un piacere più o meno intenso da qualche parte dentro. Ma appena lo comprenderà finirà per scivolare altrove, dimenticando, ma un po' più vicino a se stesso.
Le persone possono essere fotografie, possono essere dati e pensieri senza limiti, possono essere i gesti che compiono. Possono essere tutto questo insieme o non pensarci mai.
Possiamo negarci a noi stessi tutta la vita.
Possiamo scegliere di non farlo. Ingiallire e ritornare nuovi, stropicciarci, colorarci, riempirci e svuotarci di senso e allegria; conoscere, ignorare, fare, morire di routine, consumarci, oziare pigramente sul dorso della vita. Canne al vento, sì. Ma pensanti.
"L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente." (Blaise Pascal)
Le fotografie non devono essere scattate con la macchinetta per rimanere nei ricordi. Sono istantanee del nostro sguardo. Disegni realistici, ma così intimi da non risultare mai oggettivi.
Le fotografie profumano e a volte trasportano lontano: lo sai che ci stai andando, ma non riesci a frenarti. Sanno stare in silenzio, ma dicono sempre qualcosa.
Il web contiene tutto, raggiunge tutto, trasforma tutto e tutto lascia uguale.
Il web non fa distinzione tra passato e presente, non guarda all'evoluzione delle persone che ci passano su, ma incasella all'infinito dati, pensieri ed immagini. Veri o falsi, offensivi e sublimi, superficiali o profondi, son tutti lì. Senza ingiallire. Forse internet confonde col non stropicciarsi delle idee nel tempo, forse è che rende asettico e distante quello che nella foto diventa emozione e brivido. Forse gioca su altri binari.
La palestra mette in pratica il pensiero di movimento, mette in moto, fa sudare anche le elucubrazioni mentali, cancella l'attesa trasformandola in energia. Le azioni, a volte, si perdono in ripetizione meccanica che sgonfia il desiderio e l'entusiasmo. Le azioni costruiscono, ma possono distruggere. A volte salvano dall'apatia e dal troppo silenzio, altre volte ne creano il bisogno, fanno desiderare di fermarsi.
Il rumore rincorre il silenzio, il silenzio si scuote per fare rumore.
Le persone a volte dimenticano che non sono solo fotografie, né solo una massa di dati o di azioni meccaniche. Altre volte credono fortemente di essere qualcosa che non sono.
La gente a volte si perde e si spaventa, si sfida, trova, cerca e si arrende, ripete le stesse cose, sbaglia e vince. A volte l'essere umano sa vivere un istante pensando, agendo e amando proprio nello stesso momento. Però non lo sa finché non percepisce la bellezza di quell'attimo, che generalmente avvertirà come un piacere più o meno intenso da qualche parte dentro. Ma appena lo comprenderà finirà per scivolare altrove, dimenticando, ma un po' più vicino a se stesso.
Le persone possono essere fotografie, possono essere dati e pensieri senza limiti, possono essere i gesti che compiono. Possono essere tutto questo insieme o non pensarci mai.
Possiamo negarci a noi stessi tutta la vita.
Possiamo scegliere di non farlo. Ingiallire e ritornare nuovi, stropicciarci, colorarci, riempirci e svuotarci di senso e allegria; conoscere, ignorare, fare, morire di routine, consumarci, oziare pigramente sul dorso della vita. Canne al vento, sì. Ma pensanti.
"L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente." (Blaise Pascal)
sabato 18 giugno 2011
Ho perso le parole..
venerdì 10 giugno 2011
Liberi e basta.
Son qui che do le spalle al foglio su cui sto disegnando. Intanto guardo le pieghette sul palmo della mano sinistra e le seguo con lo sguardo, lentamente, come mi è stato richiesto. E nel frattempo la punta della matita, partita a caso in un punto imprecisato del bianco, scorre sul foglio, alla velocità dell'occhio, che seppur restio a farlo, rimane lento; deve restare costante, affinché la parte sinistra del mio cervello (che poi controlla il lato destro) si annoi a morte e lasci spazio alla parte destra che sa disegnare davvero, anche se non lo sa.
Appena perdo concentrazione, la parte sinistra mi domanda, con tono graffiante, a che livello può arrivare la mia stupidità pronta a tutto pur di perdere un po' di tempo e la parte che controlla il mio lato sinistro e non ha parole, non replica, ma resiste agli insulti e va a fondo nei dettagli che scorge millimetro per millimetro. Così non so bene dove sono sul foglio, ma vince la concentrazione che poi non mi mette in tensione, ma mi rilassa. Mi fa affondare lo sguardo e lo lascia perdersi tra sentieri che sembrano casuali e invece respirano arte e originalità creativa.
Smetto di pensare a quel che c'è da pensare, a credere a quel che credo, a sapere quel poco che so. Sempre che davvero qualcosa si sappia e non che ci sfiori soltanto al momento giusto, per poi starsene altrove, padrona di se stessa. Finisco per abbandonarmi, per desistere e sento un grande sonno invadermi, quasi che il mio stare sveglia non fosse che un atto di volontà. Ora che non voglio volere niente di particolare se non osservare dei dettagli inutili e leggeri, sento la stanchezza di questo tempo passato a correre da una parte all'altra, passato a scrivere e studiare e confrontarmi e cercare sempre altro e ascoltare e cadere e sognare.
Per un attimo dimentico cos'è la matematica, la letteratura, scordo le informazioni a puzzle che non mi rendono esperta in nulla ma pronta a tutto. Dimentico di poter leggere e scrivere, dei gesti automatici che ripeto per comodità, ma che oggi non mi importano molto. Dimentico chi sono per riuscire ad esserlo pienamente, solo per qualche minuto. Senza perché, né come. Disegno. Sono grafite che guarda il mondo e parla con le linee perché ha perso le parole. Forse non le ha mai ritenute necessarie.
Suona la sveglia che ho puntato, giusto per non pensare al tempo, e mi fa trasalire con la matita in mano. Con me stessa in pugno. E ghirigori che sanno di un viaggio molto lontano dentro di me.
Appena perdo concentrazione, la parte sinistra mi domanda, con tono graffiante, a che livello può arrivare la mia stupidità pronta a tutto pur di perdere un po' di tempo e la parte che controlla il mio lato sinistro e non ha parole, non replica, ma resiste agli insulti e va a fondo nei dettagli che scorge millimetro per millimetro. Così non so bene dove sono sul foglio, ma vince la concentrazione che poi non mi mette in tensione, ma mi rilassa. Mi fa affondare lo sguardo e lo lascia perdersi tra sentieri che sembrano casuali e invece respirano arte e originalità creativa.
Smetto di pensare a quel che c'è da pensare, a credere a quel che credo, a sapere quel poco che so. Sempre che davvero qualcosa si sappia e non che ci sfiori soltanto al momento giusto, per poi starsene altrove, padrona di se stessa. Finisco per abbandonarmi, per desistere e sento un grande sonno invadermi, quasi che il mio stare sveglia non fosse che un atto di volontà. Ora che non voglio volere niente di particolare se non osservare dei dettagli inutili e leggeri, sento la stanchezza di questo tempo passato a correre da una parte all'altra, passato a scrivere e studiare e confrontarmi e cercare sempre altro e ascoltare e cadere e sognare.
Per un attimo dimentico cos'è la matematica, la letteratura, scordo le informazioni a puzzle che non mi rendono esperta in nulla ma pronta a tutto. Dimentico di poter leggere e scrivere, dei gesti automatici che ripeto per comodità, ma che oggi non mi importano molto. Dimentico chi sono per riuscire ad esserlo pienamente, solo per qualche minuto. Senza perché, né come. Disegno. Sono grafite che guarda il mondo e parla con le linee perché ha perso le parole. Forse non le ha mai ritenute necessarie.
Suona la sveglia che ho puntato, giusto per non pensare al tempo, e mi fa trasalire con la matita in mano. Con me stessa in pugno. E ghirigori che sanno di un viaggio molto lontano dentro di me.
martedì 7 giugno 2011
Carry on!
Una volta pensavo che la Verità fosse la mèta di ogni mia ricerca. Da bambina la mia idea di paradiso era, lo ricordo bene, uno stato di totale conoscenza. Conoscere ogni cosa, sia a livello di nozione (tutti i libri, tutti i luoghi, tutta la storia), sia a livello profondo di emozioni, di pensieri ed esperienze.
Eppure ora mi trovo confusa, anzi forse solo cambiata.
Improvvisamente mi è piombata addosso l'idea che non ci sia nulla da cercare, che la Verità si agitasse da sempre nella mia vita, sempre presente, anche quando non la conoscevo o non sapevo vederla o qualche volta nemmeno volevo farlo.
Credo che in fondo sia solo quella dentro di me, la Verità che posso raggiungere e che, ironia della sorte, già è avvinghiata da sempre a cervello, vene e cuore, come una scimmietta vivace. Questo comporta quella sensazione di essere varie persone in una, come ognuno si sente se ci pensa un poco. Sì, perché una parte di me ha la mia età e le mie esperienze sulle spalle e le mie paure nelle viscere e la mia energia nel sangue e la sensazione del limite necessario, ma un'altra parte di me ha un'età indefinita, neonata e centenaria e sta lì da tempo a raccontare storie che non ho vissuto e piange per morti che non ho conosciuto e si batte per principi che non so bene da cosa sono nati e ride a crepapelle per la leggerezza che a volte ogni cosa acquista e rabbrividisce per amori che rinascono ogni giorno, nutrendo sempre, senza sentire il bisogno di lasciarsi nutrire e digrigna i denti per ingiustizie mai subite, per povertà mai sfiorata, per sconfiggere quella stanchezza atavica che ci fa tutti pigri, molto più spesso di quanto riusciamo a rivelarci luminosi.
E così penso che la Verità ci svegli al mattino e ci stia sui polpastrelli e sugli occhi e negli orecchi e tra le papille gustative come sui peletti del naso. Penso che in fondo sperare che tutto d'improvviso cambi per una sorta di magia, sia una sciocca illusione. Come è sciocco lasciarsi cadere le braccia e piangere senza sfidarsi ancora una volta, non importa per quante volte.
Penso che da sempre respiriamo noi stessi la voce per cambiare le cose.
Ogni volta che ci scontriamo con una parte di noi di cui ci vergogniamo o non capiamo o che ci fa soffrire tanto da farci tornare di nuovo al punto di partenza, smarriti e ammaccati; penso che quella sensazione che ci stringe lo stomaco quando capiamo di non potere, di non riuscire, di non volere, di rinunciare ad essere migliori.. beh quella sensazione è quello che ci salva.
Che sia una sofferenza o una risata improvvisa o un piacere intenso che ci prende alla sprovvista o una rabbia che ci fa squarciare tutto quello che tocchiamo, credo profondamente che quello sia un momento in cui la Verità ci abbraccia, da dentro, come può e ci dice di non fermarci mai senza esserci scavati dentro così tanto da poterla abbracciare noi, un giorno, per primi.
"Tu sai sempre cos'è la verità,
ma la vera impresa è conoscere se stessi."
Eppure ora mi trovo confusa, anzi forse solo cambiata.
Improvvisamente mi è piombata addosso l'idea che non ci sia nulla da cercare, che la Verità si agitasse da sempre nella mia vita, sempre presente, anche quando non la conoscevo o non sapevo vederla o qualche volta nemmeno volevo farlo.
Credo che in fondo sia solo quella dentro di me, la Verità che posso raggiungere e che, ironia della sorte, già è avvinghiata da sempre a cervello, vene e cuore, come una scimmietta vivace. Questo comporta quella sensazione di essere varie persone in una, come ognuno si sente se ci pensa un poco. Sì, perché una parte di me ha la mia età e le mie esperienze sulle spalle e le mie paure nelle viscere e la mia energia nel sangue e la sensazione del limite necessario, ma un'altra parte di me ha un'età indefinita, neonata e centenaria e sta lì da tempo a raccontare storie che non ho vissuto e piange per morti che non ho conosciuto e si batte per principi che non so bene da cosa sono nati e ride a crepapelle per la leggerezza che a volte ogni cosa acquista e rabbrividisce per amori che rinascono ogni giorno, nutrendo sempre, senza sentire il bisogno di lasciarsi nutrire e digrigna i denti per ingiustizie mai subite, per povertà mai sfiorata, per sconfiggere quella stanchezza atavica che ci fa tutti pigri, molto più spesso di quanto riusciamo a rivelarci luminosi.
E così penso che la Verità ci svegli al mattino e ci stia sui polpastrelli e sugli occhi e negli orecchi e tra le papille gustative come sui peletti del naso. Penso che in fondo sperare che tutto d'improvviso cambi per una sorta di magia, sia una sciocca illusione. Come è sciocco lasciarsi cadere le braccia e piangere senza sfidarsi ancora una volta, non importa per quante volte.
Penso che da sempre respiriamo noi stessi la voce per cambiare le cose.
Ogni volta che ci scontriamo con una parte di noi di cui ci vergogniamo o non capiamo o che ci fa soffrire tanto da farci tornare di nuovo al punto di partenza, smarriti e ammaccati; penso che quella sensazione che ci stringe lo stomaco quando capiamo di non potere, di non riuscire, di non volere, di rinunciare ad essere migliori.. beh quella sensazione è quello che ci salva.
Che sia una sofferenza o una risata improvvisa o un piacere intenso che ci prende alla sprovvista o una rabbia che ci fa squarciare tutto quello che tocchiamo, credo profondamente che quello sia un momento in cui la Verità ci abbraccia, da dentro, come può e ci dice di non fermarci mai senza esserci scavati dentro così tanto da poterla abbracciare noi, un giorno, per primi.
"Tu sai sempre cos'è la verità,
ma la vera impresa è conoscere se stessi."
martedì 31 maggio 2011
wind of Change!
Quando il vento cambia, Mary Poppins vola via..
..però arrivano DeMagistris e Pisapia!!!
Ci vorrà solo il suo tempo, ora, ma il cambiamento è stato innescato: che sollievo!
Prosit!
..però arrivano DeMagistris e Pisapia!!!
Ci vorrà solo il suo tempo, ora, ma il cambiamento è stato innescato: che sollievo!
Prosit!
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domenica 29 maggio 2011
l'eleganza del riccio
L'altro giorno mi son fatta 20 km in bici a tutta velocità, così tanto per dirmi che almeno le mie gambe funzionano come si deve, in un periodo in cui ad assentarsi spesso è il cervello. Quel megalomane.
Beh, comunque, sfreccio a manetta su una strada stretta di campagna e sento una risata: è identica a quella di mia cugina.
Di riflesso rallento, mi giro: vedo delle ragazzine giocare e scherzare insieme e mi sfugge un sorriso e mi si accavallano i ricordi.
Sì, è vero, quella risata è identica a quella di mia cugina. Ma la mia cugina di un tempo. La bambina dispettosa che conoscevo: tremenda e poco sensibile ai miei pensieri seppure avessi cinque anni di meno. Così diverse da sempre. La stessa che giocava con me volentieri, che mi aveva insegnato a cantare "La gatta" di Gino Paoli, mentre imparavo che le unghiette dei micini sono dolci come il loro miagolio; quella con la carnagione scura e le tette grosse che mi son sempre domandata come facciamo ad esser parenti, quella che dalla nonna era sempre in ciabatte e che ammiravo follemente quando ero alle medie, per come affrontava il mondo a muso duro e in modo spudorato. La matta che, quando ha iniziato a fare l'infermiera, voleva fare le prove sul mio braccio, perché avevo le vene perfette per un prelievo (ma soprattutto odiava ed odia siringhe e medicine - vai a capire perché questo senso sadico del fare agli altri qualcosa che odia su di lei).
Quella che rideva di gusto, una risata contagiosa, bella, che credevo d'aver dimenticato.
Dimenticato perché non la sento più ridere. È rimasto del formalismo, ci si saluta e ci si fa gli auguri alle feste comandate. Le battute di sempre vengono scambiate: "Oh, hai cambiato i capelli.. ma sempre magra, sei tu.. ma non porti più gli occhiali.. ma qui, ma lì" ma alla fine di nulla si vuole parlare. Io rispondo, certo, ma se posso evito di imbrigliarmi in discorsi che sento poco spontanei. I regali stessi finiscono per infastidirmi quando ora mi sento dire "Guarda che ho speso niente per questo, anche perché non ci sono mai i soldi". Che importano i tuoi regali se nemmeno stiamo davvero parlando? Tienili pure i tuoi preziosi soldi. Perché farmi sentire anche debitrice nei tuoi confronti, mi chiedo? Poi ragiono e sorvolo. Non importa.
Forse tutto è partito dai soldi, da discussioni che solo tra parenti diventano così grigie e inesorabili, problemi che coinvolgono anche senza essere i diretti interessati. Forse i soldi sono sempre e solo un pretesto per altre povertà malcelate. Contrasti, a cui nemmeno so dare un nome, hanno svestito una situazione che apparentemente pareva di confidenza e sincero scambio, ma che nel tempo si è dimostrata altro, sfaldandosi da sola.
In fondo ci ho creduto o c'è stato questo darsi qualcosa in passato, ma poi quelle risposte scattose che ricordo nell'infanzia, quella rabbia che a volte sentivo su di me e non capivo, quei silenzi a cui davo poco peso, quelle battute secche ed invidiose che combattevo con l'ironia, si son solidificate nell'età adulta e si è creato un divario, quando non avevo più voglia di fingere che andasse bene così, quando era anche lei stufa di quella commedia. Mi dicono di andare oltre, di provare sempre a recuperare i rapporti ed è un atteggiamento che ormai mi viene spontaneo. Eppure io evito con tutta me stessa la formalità, in un modo che mia mamma definisce drastico. Non ho mai amato scoprire qualcosa per poi ricoprirlo, se qualcosa cambia, cambia: non c'è da disperarsi, ma nemmeno da ignorarlo.
Non è neanche questo il problema. Mentre continuavo a pedalare decisa, ho ricordato cosa ha allontanato le nostre famiglie, mi son fatta delle domande su come una bambina riccioluta e solare, immersa però in una storia pesante, sia diventata così insensibile e rabbiosa più tardi. E infine fredda e quasi spietata, nel senso di assenza di empatia. Così chiusa al mondo.
Penso a come probabilmente fin da piccola si difendeva dalla vita, dagli eventi, rivedo il suo viso freddo come un sasso quando voleva ferirmi, intoccabile, per poi crollare in crisi di pianto improvvise, che la squassavano come un temporale in agosto. Ricordo i miei tentativi di capire, di intaccare quel gioco di rabbia, sofferenza e difesa. Per sollevare il velo di menzogna che si stava adagiando su tutto per protezione, forse, o solo perché aveva trovato spazio.
Nonostante questo, poco ho potuto. Forse perché ero una bambina, forse perché dipendeva molto anche da lei e dai miei zii. Mi manca quella risata, quel rapporto che forse si sarebbe costruito. Forse.
Forse è solo che al lavoro un bambino ha lanciato una scarpa nel cortile della casa vicina e che sua mamma si è arrampicata per riprenderla. Forse è che aveva paura ed era stanca ed incazzata. Forse le era andata male la giornata. Forse è che credeva di rompersi un piede saltando giù dal cancello, mentre il bambino lo teneva fermo, terrorizzato all'idea che si facesse del male.
Fatto sta che, saltata giù, ha esclamato: "Fanculo, a tutti e tre!", rivolta al figlio, alla bambina di 7 anni e al nipote.
Forse è che mi son sentita mancare il cuore allo sguardo della bambina, che proprio nulla aveva fatto, ma che ha incassato il colpo col cipiglio di chi ci è abituato da tempo.
Mi è mancato il cuore a vedere il bambino abbracciarla, visibilmente scosso.
Mi è mancato il cuore a vedere il nipote indifferente, quasi estraneo a tutto.
Tre bambini, tre reazioni diverse. Non si vede mai subito quando si rompe qualcosa dentro e in quanti pezzetti va in frantumi e cosa toccano, cosa intaccano nel cuore, nei gesti, nei sogni.
Così la battuta l'ho fatta: "Ehi M., ma non avevano mica fatto nulla, poi S. era qui tranquilla!"
E S. immediatamente le si è attaccata ad un braccio, cercando una carezza e ha detto: "Sì, mamma, non ho mica fatto nulla, io!" E sono andati via, tutti e quattro insieme, come macchie di colore che chissà come si mescoleranno, ancora.
Forse è che vorrei non pensare che mia cugina, in un contesto diverso, con l'aiuto adeguato, potrebbe essermi antipatica per motivi sani di incompatibilità e basta. Forse è che non vorrei sentire nel profondo la strana sensazione che sia ancora lì, a difendersi da qualcosa.
Beh, comunque, sfreccio a manetta su una strada stretta di campagna e sento una risata: è identica a quella di mia cugina.
Di riflesso rallento, mi giro: vedo delle ragazzine giocare e scherzare insieme e mi sfugge un sorriso e mi si accavallano i ricordi.
Sì, è vero, quella risata è identica a quella di mia cugina. Ma la mia cugina di un tempo. La bambina dispettosa che conoscevo: tremenda e poco sensibile ai miei pensieri seppure avessi cinque anni di meno. Così diverse da sempre. La stessa che giocava con me volentieri, che mi aveva insegnato a cantare "La gatta" di Gino Paoli, mentre imparavo che le unghiette dei micini sono dolci come il loro miagolio; quella con la carnagione scura e le tette grosse che mi son sempre domandata come facciamo ad esser parenti, quella che dalla nonna era sempre in ciabatte e che ammiravo follemente quando ero alle medie, per come affrontava il mondo a muso duro e in modo spudorato. La matta che, quando ha iniziato a fare l'infermiera, voleva fare le prove sul mio braccio, perché avevo le vene perfette per un prelievo (ma soprattutto odiava ed odia siringhe e medicine - vai a capire perché questo senso sadico del fare agli altri qualcosa che odia su di lei).
Quella che rideva di gusto, una risata contagiosa, bella, che credevo d'aver dimenticato.
Dimenticato perché non la sento più ridere. È rimasto del formalismo, ci si saluta e ci si fa gli auguri alle feste comandate. Le battute di sempre vengono scambiate: "Oh, hai cambiato i capelli.. ma sempre magra, sei tu.. ma non porti più gli occhiali.. ma qui, ma lì" ma alla fine di nulla si vuole parlare. Io rispondo, certo, ma se posso evito di imbrigliarmi in discorsi che sento poco spontanei. I regali stessi finiscono per infastidirmi quando ora mi sento dire "Guarda che ho speso niente per questo, anche perché non ci sono mai i soldi". Che importano i tuoi regali se nemmeno stiamo davvero parlando? Tienili pure i tuoi preziosi soldi. Perché farmi sentire anche debitrice nei tuoi confronti, mi chiedo? Poi ragiono e sorvolo. Non importa.
Forse tutto è partito dai soldi, da discussioni che solo tra parenti diventano così grigie e inesorabili, problemi che coinvolgono anche senza essere i diretti interessati. Forse i soldi sono sempre e solo un pretesto per altre povertà malcelate. Contrasti, a cui nemmeno so dare un nome, hanno svestito una situazione che apparentemente pareva di confidenza e sincero scambio, ma che nel tempo si è dimostrata altro, sfaldandosi da sola.
In fondo ci ho creduto o c'è stato questo darsi qualcosa in passato, ma poi quelle risposte scattose che ricordo nell'infanzia, quella rabbia che a volte sentivo su di me e non capivo, quei silenzi a cui davo poco peso, quelle battute secche ed invidiose che combattevo con l'ironia, si son solidificate nell'età adulta e si è creato un divario, quando non avevo più voglia di fingere che andasse bene così, quando era anche lei stufa di quella commedia. Mi dicono di andare oltre, di provare sempre a recuperare i rapporti ed è un atteggiamento che ormai mi viene spontaneo. Eppure io evito con tutta me stessa la formalità, in un modo che mia mamma definisce drastico. Non ho mai amato scoprire qualcosa per poi ricoprirlo, se qualcosa cambia, cambia: non c'è da disperarsi, ma nemmeno da ignorarlo.
Non è neanche questo il problema. Mentre continuavo a pedalare decisa, ho ricordato cosa ha allontanato le nostre famiglie, mi son fatta delle domande su come una bambina riccioluta e solare, immersa però in una storia pesante, sia diventata così insensibile e rabbiosa più tardi. E infine fredda e quasi spietata, nel senso di assenza di empatia. Così chiusa al mondo.
Penso a come probabilmente fin da piccola si difendeva dalla vita, dagli eventi, rivedo il suo viso freddo come un sasso quando voleva ferirmi, intoccabile, per poi crollare in crisi di pianto improvvise, che la squassavano come un temporale in agosto. Ricordo i miei tentativi di capire, di intaccare quel gioco di rabbia, sofferenza e difesa. Per sollevare il velo di menzogna che si stava adagiando su tutto per protezione, forse, o solo perché aveva trovato spazio.
Nonostante questo, poco ho potuto. Forse perché ero una bambina, forse perché dipendeva molto anche da lei e dai miei zii. Mi manca quella risata, quel rapporto che forse si sarebbe costruito. Forse.
Forse è solo che al lavoro un bambino ha lanciato una scarpa nel cortile della casa vicina e che sua mamma si è arrampicata per riprenderla. Forse è che aveva paura ed era stanca ed incazzata. Forse le era andata male la giornata. Forse è che credeva di rompersi un piede saltando giù dal cancello, mentre il bambino lo teneva fermo, terrorizzato all'idea che si facesse del male.
Fatto sta che, saltata giù, ha esclamato: "Fanculo, a tutti e tre!", rivolta al figlio, alla bambina di 7 anni e al nipote.
Forse è che mi son sentita mancare il cuore allo sguardo della bambina, che proprio nulla aveva fatto, ma che ha incassato il colpo col cipiglio di chi ci è abituato da tempo.
Mi è mancato il cuore a vedere il bambino abbracciarla, visibilmente scosso.
Mi è mancato il cuore a vedere il nipote indifferente, quasi estraneo a tutto.
Tre bambini, tre reazioni diverse. Non si vede mai subito quando si rompe qualcosa dentro e in quanti pezzetti va in frantumi e cosa toccano, cosa intaccano nel cuore, nei gesti, nei sogni.
Così la battuta l'ho fatta: "Ehi M., ma non avevano mica fatto nulla, poi S. era qui tranquilla!"
E S. immediatamente le si è attaccata ad un braccio, cercando una carezza e ha detto: "Sì, mamma, non ho mica fatto nulla, io!" E sono andati via, tutti e quattro insieme, come macchie di colore che chissà come si mescoleranno, ancora.
Forse è che vorrei non pensare che mia cugina, in un contesto diverso, con l'aiuto adeguato, potrebbe essermi antipatica per motivi sani di incompatibilità e basta. Forse è che non vorrei sentire nel profondo la strana sensazione che sia ancora lì, a difendersi da qualcosa.
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